2000. Maria ha 25 anni, è da poco laureata ed è stata assunta dalla cooperativa La Margherita. È entusiasta, assolutamente entusiasta. Si ferma spesso a lavorare alla sera fino a tardi e quando il suo responsabile le propone delle trasferte per convegni o progetti europei è felice e onorata. Generalmente non chiede nessuna forma di straordinario o riposo compensativo, è contenta di fare queste esperienze. E poi… la gioia più grande, il prossimo anno si sposerà!
2024. Maria ha 49 anni, lavora sempre a La Margherita. Ha due figli di 10 e 12 anni che sta crescendo da sola dopo la separazione dal marito; il più grande è abbastanza in difficoltà, ha problemi scolastici e gli insegnanti le hanno consigliato di fargli fare dei colloqui psicologici. La cooperativa è stata molto comprensiva, ma la sua carriera negli ultimi dieci anni, tra maternità e carichi familiari, non ha fatto passi in avanti. Le piace ancora lavorare in cooperativa ma d’altra parte spesso si sente stanca e demotivata. Quando esce dal lavoro – alle 17 al massimo, non può fermarsi mai un minuto in più, anzi spesso chiede di uscire prima – va a trovare la madre ottantenne, che da quando si è rotta il femore quasi non si alza e ha bisogno di aiuto. Deve capire se attivare un badante, da sola non ce la fa, ma non ha abbastanza soldi, d’altra parte non se la sente di mettere la madre in RSA. Ad essere sinceri, la sua produttività lavorativa è scesa vertiginosamente, ha sempre la testa altrove, ogni tanto commette errori anche abbastanza gravi… diciamo la verità, fosse per lei lascerebbe il lavoro, troppi carichi tutti insieme, ma ha un disperato bisogno di soldi e sa bene che dovrà lavorare ancora una quindicina d’anni se non di più… Anche in cooperativa hanno capito che non ce la fa più.
La ricerca alla base di questo articolo è stata realizzata dall’autrice su incarico del Consorzio Sociale Abele Lavoro di Torino.
Il tema
In questo contributo si proporranno gli esiti di un lavoro di ricerca svolto nel 2022, finalizzato ad esplorare le strategie delle imprese nella gestione di lavoratori che presentino varie forme di fragilità, riconosciute o meno. In termini più ampi, i quesiti di ricerca sono i seguenti:
- in che modo le imprese gestiscono lavoratori che mostrano difficoltà personali di vario tipo, da quelle identificabili come forme esplicite di svantaggio ad altre che possono caratterizzare, in fasi diverse, le biografie della maggior parte dei lavoratori? Quali azioni, formali e informali, sono svolte per rendere possibile la permanenza di lavoratori fragili?
- Vi sono differenze nel modo in cui tali circostanze sono gestite da imprese sociali rispetto ad altre imprese?
Tali quesiti si collocano, come è noto, in un contesto come quello italiano, in cui gli strumenti a supporto della gestione di queste fragilità sono tendenzialmente deboli e in cui quindi anche le imprese che mostrano interesse e apertura verso lavoratori fragili devono immaginare strategie inclusive pur nella scarsità di risorse dedicate.
L’indagine è stata svolta attraverso interviste e osservazione partecipante all’interno di 8 aziende del territorio torinese, 4 cooperative sociali (sia A che B) e 4 imprese a scopo di lucro di dimensioni diverse; si tratta di imprese con le quali preesisteva un rapporto fiduciario, avendo l’autrice svolto presso di esse l’attività di tutor dell’inserimento lavorativo e in cui quindi vi è stata la possibilità di permanere osservando le dinamiche all’interno delle squadre di lavoro in essere e di interloquire con dirigenti, responsabili dell’area risorse umane e lavoratori. La scelta di concentrarsi su settori di attività dove il lavoro è organizzato in squadre ha consentito di osservare nel concreto i processi di inclusione formali e informali che si attuano al loro interno. Le imprese studiate operavano nei settori dei servizi di pulizie, raccolta differenziata dei rifiuti, logistica e commercio, supermercati GDO.
Va evidenziato come, soprattutto per le imprese for profit, tale strategia di individuazione del campione, se da una parte ha reso più semplice l’accesso alle imprese, dall’altra ha selezionato un gruppo di imprese con caratteristiche marcatamente inclusive, presumibilmente assai diverse da quelle mediamente diffuse nel mondo imprenditoriale: si tratta di imprese che negli anni, per disponibilità del titolare o di alcuni responsabili d’area, hanno evidenziato una specifica sensibilità versi i temi dell’inserimento lavorativo, accettando di inserire tirocinanti svantaggiati con progetti di politica attiva del lavoro, e talvolta assumendoli, interloquendo con i tutor per favorire l’inserimento, ecc. Nondimeno, come si vedrà, questa specificità del campione ha consentito di mettere in luce elementi distintivi tra le strategie adottate dai due sottogruppi di imprese intervistati.
In cosa consiste la fragilità dei lavoratori
Nell’accezione qui utilizzata, il termine “lavoratori fragili” include casi tra loro molto diversi. In sintesi, nelle imprese intervistate si sono incontrati tre tipi di situazioni di fragilità: lo svantaggio certificato ai sensi della legge 381/1991, le forme di svantaggio riconosciute da altre normative, le forme di svantaggio non certificato.
Lo svantaggio riconosciuto dalla 381/1991 e altre forme di grave fragilità
La prima è quella delle situazioni di svantaggio riconosciuto dall’art. 4 della legge 381/1991 e di altri casi di svantaggio molto significativo e ben identificabile; si tratta di persone con:
- Con disabilità fisica, intellettiva, sensoriale;
- con problemi di salute mentale;
- con dipendenza in carico ai SERD;
- detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione;
Accanto ai casi di svantaggio ex lege 381/1991, vi sono altre situazioni che, pur non certificate, si caratterizzano per una grave fragilità: situazioni di disagio economico ed abitativo (es. persone con storie di povertà estrema), generalmente in carico a servizi socioassistenziali o sociosanitari, oggetto di inserimento lavorativo in senso stretto: che si tratti di impresa sociale o di impresa for profit, si tratta di persone la cui situazione di svantaggio è chiaramente inquadrata, generalmente nota, in cui l’inserimento avviene ad esito di un progetto esplicito che mira a favorire la reintegrazione socio lavorativa della persona inserita.
Si tratta delle forme di svantaggio più evidenti, che sono presenti soprattutto nelle cooperative sociali di inserimento lavorativo, fatto salvo il caso del collocamento mirato di persone con disabilità previsto dalla legge 68/1999 per le imprese for profit con più di 15 dipendenti. Questo dato sottolinea l’unicità della cooperazione sociale, capace di esprimere un alto livello di conoscenze e competenze nell’accompagnare e includere nella produzione, i soggetti con svantaggio più forte.
Altre forme di svantaggio riconosciuto
La seconda situazione è quella dei casi di svantaggio non certificato ex art. 4 della legge 381/1991, ma riconosciuto da altre normative (d.m. del 17 ottobre 2017) per i quali possono comunque essere previsti degli incentivi all’assunzione:
- Adulti over 50 con scarsa scolarizzazione e scarse competenze lavorative
- Giovani NEET
I primi, gli over 50, hanno molte difficoltà, da disoccupati, a ritrovare lavoro, in quanto sovente hanno un passato di lunga assenza dal mercato del lavoro a seguito dei licenziamenti collettivi di aziende in crisi nel tessuto industriale torinese, che perse nei primi anni Duemila numerose storiche realtà di fabbrica, a causa di delocalizzazioni o fallimenti. Sono persone per le quali sono previsti incentivi all’assunzione che tengono conto della difficoltà ad essere collocabili, legata all’età di questi lavoratori e alla perdita di competenze spendibili nel mercato del lavoro. Il fatto di aver perso un lavoro da operaio non specializzato con mansioni ripetitive (peraltro spesso in aziende che falliscono anche perché poco competitive in un mercato di industrie sempre più ad alti livelli tecnologici), fa sì che ritrovare un lavoro nel nuovo risulti estremamente difficile. Spesso accade che questi lavoratori, per effetto di interventi di politiche attive del lavoro, vengano avviati a selezioni del personale in un mercato del lavoro altamente competitivo e specializzato, purtroppo con scarsi risultati. Inserire dunque in squadre di lavoro gli adulti over 50 che hanno perso la piena capacità lavorativa a causa di una lunga fase di disoccupazione, magari con colleghi più giovani e specializzati, rappresenta una sfida non facile per le imprese, che, anche una volta operata l’assunzione, devono poi garantire la formazione continua alle competenze richieste se vogliono favorire una effettiva inclusione di queste persone in azienda.
I giovani dai 15 ai 24 anni sono inseriti tra le categorie svantaggiate dal DM del 17 ottobre 2017, ma i progetti di politica attiva del lavoro italiani ed europei allargano fino ai 29 anni l’età per la quale si è considerati “giovani” e conseguentemente potenziali beneficiari di strumenti quali la Garanzia Giovani e il contratto di apprendistato, oltre che degli incentivi all’assunzione di tale fascia di popolazione. Si tratta, come è noto, di una categoria caratterizzata da elevati tassi di disoccupazione e di inattività nei Paesi europei, tra i quali l’Italia ha da sempre un drammatico primato, essendovi la percentuale più alta di giovani inattivi rispetto al resto d’Europa. Sicuramente almeno una parte delle aziende intervistate preferiscono assumere giovani, anche se scarsamente qualificati da titoli di studio o da esperienze di lavoro, rispetto agli adulti over 50, spesso a fronte del fatto che nei lavori manuali faticosi questi ultimi sovente hanno maggiori problemi di salute, e comunque si tende a vedere nel giovane un investimento a lungo termine. Ciò non toglie che si rilevi un sentimento comune, tra imprese profit e non profit, di sfiducia verso i giovani, che o non accettano il lavoro offerto, oppure si dimettono nel breve periodo dopo l’assunzione in azienda. I commenti più diffusi sono che i giovani “non vogliono impegnarsi”, “non sono affidabili”, “non vogliono assumere responsabilità”, “non accettano di lavorare nei weekend o su turni”, lamentando un elevato turnover di dipendenti in questa fascia di età e fenomeni di quiet quitting (vedi l’editoriale Le imprese sociali e la riscoperta del mondo del lavoro di Borzaga e Musella in Impresa Sociale 3/2022). Non stupisce che quindi, in controtendenza con quanto prima affermato, alcune imprese scelgano di investire sulle persone over 50, che vengono descritte come più affidabili e costanti nelle mansioni assegnate:
“Nella carenza di personale qualificato abbiamo scelto di investire su adulti sessantenni, con questo ragionamento: una persona esclusa dalla società e del mercato del lavoro, che si sente rifiutata da tutti per la sua età, e invece dietro ha un bagaglio enorme, ma che le persone che la colloquiano (i cacciatori di teste) non sono in grado di valorizzare, perché guardano solo la sua età anagrafica, per noi invece è una grande risorsa. Il rifiuto verso gli anziani è una miopia manageriale…incapacità gestionale che non valorizza la risorsa che ha di fronte, che non valorizza i talenti perché non li riconosce.” (Direttore di un’impresa for profit).
Fragilità non certificate
Vi sono poi le fragilità non certificate, un ampio insieme di condizioni più sfumate e molto frequenti:
- Donne con carichi familiari e conseguenti difficoltà di conciliazione;
- lavoratori anziani e/o con problemi fisici legati all’invecchiamento con conseguente frequente assenza per malattia (si pensi ad esempio a lavori faticosi e usuranti es. traslocatore);
- Stranieri con scarso livello di italiano e difficoltà di integrazione;
- E poi un vasto insieme di situazioni difficilmente categorizzabili, ma che comunque costituiscono problemi significativi: problemi relazionali, persone con scarsa gestione dell’emotività, problemi legati all’umore ma non trattati con farmaci e da servizio di psichiatria, lavoratori incostanti, incapaci di gestire le proprie responsabilità
Vi sono, in queste categorie, ampie zone grigie, lavoratrici e lavoratori che incontrano difficoltà che nascono spesso al di fuori, nella vita privata, ma che si ripercuotono nei luoghi di lavoro, a stretto contatto con i responsabili e i colleghi di squadra: si pensi alle fatiche relative alla conciliazione tra lavoro e attività di cura familiare nei confronti di bambini o anziani, a situazioni, proprie o di famigliari, di perdita della salute, oltre che al dato biografico dell’invecchiamento del lavoratore, accentuato dall’evoluzione delle politiche pensionistiche. In tutti questi casi non vi è uno svantaggio in senso stretto, talune situazioni possono essere transitorie, ma in ogni caso la capacità del lavoratore di operare nell’impresa con il massimo della produttività appare temporaneamente o definitivamente compromessa.
Particolare attenzione è stata riservata alla condizione femminile; all’interno dei settori analizzati, infatti - ad esempio nei servizi di pulizia -, le donne sono in netta maggioranza, ponendosi così la questione di come mediare l’organizzazione del lavoro (es. gli orari) con le esigenze connesse agli impegni familiari e ai carichi di cura, che sappiamo essere in larga parte a gestione femminile. E tale responsabilità comporta l’emersione di situazioni transitorie di fragilità per le donne, nella difficoltà di conciliazione lavoro-vita privata, con episodi comuni di rischio di uscita dal mercato del lavoro.
Si tratta di situazioni di fragilità non riconosciute dalla legge, talvolta di casi in cui lo svantaggio è inizialmente non riconoscibile, a volte temporaneo, a volte in aumento nella carriera lavorativa della persona. Spesso è una fragilità che emerge “in corso d’opera”, a causa di un evento nella vita privata del lavoratore, e che comporta ricadute durante l’attività quotidiana d’impiego in azienda.
“Abbiamo 35 persone con una fragilità riconosciuta, con la Legge 104/1992 (carichi familiari, permessi per assistenza di persone disabili in famiglia). Ma anche altri lavoratori con fragilità personali non seguite da servizi particolari: una ragazza con sbalzi di umore che abbandona il posto di lavoro, ma comunque l’azienda le mantiene il posto di lavoro. Mi ha chiamata l’altro giorno che non se la sentiva di lavorare e voleva mollare tutto. L’ho convinta a ripensarci e a tornare…” (Responsabile di un supermercato)
Le difficoltà relazionali, la scarsa propensione generalizzata alla gestione dell’emotività e dei conflitti che nel quotidiano nascono all’interno dei luoghi di lavoro, sbalzi d’umore e aggressività, portano sovente all’incostanza del lavoratore rispetto ai suoi doveri del ruolo che ricopre all’interno dell’azienda.
L’incapacità nella gestione dell’umore e dell’emotività emerge sovente all’interno delle squadre operative, in quanto il lavoratore è obbligato a relazionarsi quotidianamente con altre persone. I problemi della vita privata, familiare, spesso esplodono nel lavoro, non tutti riescono a sospendere le fatiche del privato, con una corretta ed equilibrata presenza nella mansione di lavoro. Se a questo sommiamo i conflitti con i colleghi, il livello di stress e malessere aumenta:
“Personale con difficoltà ne ho, ma è proprio nel settore delle pulizie che l’azienda necessita di fare ragionamenti di flessibilità che possano sostenere il balance lavoro/vita privata del lavoratore e le loro fragilità individuali che sono alte in questo settore, molte persone non reggono nel lungo periodo la difficoltà di relazioni interne e col cliente, da cui discendono frequenti lamentele: “il cliente non mi rispetta, il mio collega mi tratta male”. Chi non regge nel lungo periodo i minimi conflitti nella relazione con i colleghi e con i clienti, a un certo punto se ne va.” (Responsabile impresa for profit).
I responsabili del settore delle pulizie, come quelli della grande distribuzione o nella ristorazione, lamentano dunque un elevato turnover dei dipendenti, anche legato alla scarsa propensione alla gestione dello stress quotidiano sopra descritto. In più gli orari di lavoro non centrali (presto la mattina e tardi la sera, lavoro anche nel weekend) nel lungo periodo vengono mal sopportati, soprattutto da chi ha carichi di cura come le donne, che porta prima o poi a fare una comparazione tra fatica, orari e reddito guadagnato, che si traduce nella convinzione che “per quello che guadagno non ne vale la pena”.
Paradossalmente, lo stesso pensiero che ritroviamo nel lavoro nel sociale, in cooperative sociali di tipo A, dove educatori professionali e OSS risultano di difficile reperimento non solo per una specifica situazione del lavoro sociale che in questa sede non vi è tempo di approfondire, ma anche perché, soprattutto in servizi quali comunità, RSA, strutture di accoglienza che prevedono cicli di lavoro sulle 24 ore e che comportano uno stress psicologico notevole, con l’avanzare dell’età e con l’emergere di carichi familiari sono sottoposti alla medesima pressione prima descritta per chi opera in settori diversi. È interessante notare che, da questo punto di vista, le strategie per gestire personale fragile non riguardano solo le cooperative sociali di inserimento lavorativo, ma anche le cooperative sociali di tipo A: pensiamo a strutture residenziali, ad esempio RSA, che funzionano h24, con un lavoro che assomma fatiche fisiche e psicologiche, svolto da manodopera femminile (e quindi sottoposta ai doppi carichi lavorativo e familiare), con scarse prospettive di avanzamento di carriera e spesso con storie contributive discontinue che obbligano a lavorare sino al conseguimento della pensione di vecchiaia. Tutto questo descrive uno scenario di potenziale difficoltà nel gestire gruppi di lavoratrici che sperimentano fatiche a svolgere la propria attività lavorativa.
Sempre più frequenti, tra i tipi di svantaggio non certificato, i problemi fisici legati all’invecchiamento, il fenomeno cosiddetto dell’aging, che con l’aumento costante dell’età della popolazione al lavoro, porta ad avere più lavoratori anziani, rispetto ai giovani. Sono sovente i lavoratori over 50 che sviluppano nel tempo le fragilità di salute.
I lavori usuranti, o più in generale i lavori fisici ripetitivi nell’arco della vita, aggravano problemi legati alla schiena, agli arti, che se non gestiti con strumenti ad hoc per alleggerire i carichi e i pesi, portano all’emersione di nuove disabilità o impossibilità a proseguire la mansione da sempre affidata. Questo porta le imprese a confrontarsi con strategie di age-management, quando si presenta il problema di ricollocare persone che non possono più svolgere le mansioni affidate da contratto, tema che sarà approfondito nelle prossime pagine.
Cooperazione sociale e imprese a scopo di lucro: differenze nella gestione del personale svantaggiato
Fatto questo quadro relativo alle fragilità lavorative che si incontrano, come si comportano le imprese – sia le cooperative sociali, sia le imprese for profit – di fronte a personale problematico, fragile o “infragilito” nel corso del tempo? Danno corso a politiche espulsive? Marginalizzano il lavoratore per rendere innocuo il suo deficit nel processo produttivo? “Sopportano” la situazione senza sapere bene come agire? Mettono in atto azioni volte a accogliere e supportare lo stato di disagio? E, in questo caso, lo fa in modo formale o nell’informalità della relazione diretta tra le persone? E, come già ricordato, vi sono differenze tra le imprese for profit e le imprese sociali nella gestione di tali situazioni? E quali sono le differenze tra i due tipi di imprese, sociali e for profit?
Si esaminano di seguito prima le strategie delle cooperative sociali e poi quelle delle imprese for profit.
Il lavoro inclusivo delle squadre nelle cooperative sociali
Uno degli aspetti caratterizzanti della gestione delle problematiche di fragilità lavorativa nelle cooperative sociali è costituito da forme organizzative legate alla cultura del lavoro sociale, che assumono un ruolo specifico anche nella gestione di queste situazioni.
Appare infatti più naturale rispetto alle imprese for profit vivere le dinamiche lavorative entro equipe / gruppi di lavoro; e generalmente questa dimensione collettiva viene curata e supportata: se si tratta di lavoro sociale con la supervisione, se si tratta di cooperative B con il lavoro di figure specifiche che assommano ruoli organizzativi e di gestione delle problematicità della squadra. La rilevanza della dimensione di gruppo è già metodo inclusivo: se un collega non ce la fa, il gruppo tende ad adattarsi alla situazione, sopperendo alla difficoltà del singolo; per questo uno degli aspetti decisivi è la capacità di formare gruppi o squadre di lavoro equilibrate e possibilmente complementari. Questo garantisce tanto l’efficienza della produzione, quanto la capacità di agire in modo inclusivo rispetto ad eventuali difficoltà che riguardano taluni membri della squadra.
Questo è anche, più nello specifico, il metodo con cui si affrontano nelle cooperative B tanto i problemi di inclusione delle persone con svantaggi riconosciuto, tanto i fenomeni di aging e altre fragilità, ad esempio nel caso siano da svolgere lavori particolarmente faticosi. Questo deve essere fatto da una parte sopperendo alla minore capacità fisica dei lavoratori più anziani, d’altra parte riconoscendo le competenze dei lavoratori storici, che possono risultare funzionali ai lavoratori più giovani. Si tratta di organizzare quindi i gruppi di lavoro affiancando in modo complementare lavoratori anziani – “per dare dignità alla loro esperienza e tramandare le loro storie professionali, con un passaggio di testimonianza, ai nuovi lavoratori” afferma il responsabile di una cooperativa sociale di inserimento lavorativo – e lavoratori più giovani.
Risultano poi molto più frequente rispetto a quanto avviene nelle imprese for profit che il gruppo di colleghi sostenga i lavoratori più fragili sia durante il lavoro, sia in altri momenti, così da evitare l’isolamento di persone spesso sole nei momenti diversi dal lavoro. Attività di dopolavoro sono incentivate dalle stesse cooperative per favorire l’inclusione sociale dei lavoratori: organizzazione di cene, attività sportive, viaggi, momenti assembleari.
L’osservazione all’interno delle squadre operative ha permesso di confermare le parole dei dirigenti delle risorse umane: è chiaro che la cultura e i valori dell’inclusione siano radicati nella maggioranza dei lavoratori delle cooperative sociali, dal vertice al basso, facendo sì che i comportamenti attuati siano verso l’attenzione ai bisogni dei dipendenti tutti, in particolare di chi fa più fatica nel lavoro e fuori da esso.
Oltre però a questa naturale vocazione all’accoglienza, sono da registrare delle azioni organizzative specifiche a sostegno dei lavoratori fragili, ad esempio orari ridotti e flessibili che favoriscano la conciliazione con la vita privata, turni fissi e sedi di lavoro per quanto possibile vicino a casa per chi ha carichi familiari. Inoltre, le cooperative di grandi dimensioni, per arginare il fenomeno dell’aging e rispondere alle esigenze di conciliazione, stanno ripensando attività e organizzazione per individuare mansioni di lavoro “leggere” per quanto riguarda i carichi fisici, con la possibilità di telelavoro per le donne, e operazioni semplici per chi ha competenze scarse da un punto di vista tecnologico. Il porsi il problema di reperire occasioni lavorative, rami aziendali, mansioni specifiche per persone che non riescono più a svolgere il lavoro per le quali sono entrate inizialmente in cooperativa per l’età avanzata, la disabilità sopravvenuta a causa di lavoro usurante o per i carichi familiari che non permettono più la presenza negli orari di lavoro standard è la soluzione che le cooperative stanno sperimentando per arginare l’aging e le dimissioni / licenziamenti dei lavoratori.
In ultimo, ma non di minor importanza rispetto agli strumenti dell’inclusione delle cooperative sociali, si segnalano, soprattutto per quelle di grandi dimensioni, forme di sostegno extralavorativo assicurato dalla cooperativa sotto forma di sistemi di welfare aziendale: sportelli di italiano per stranieri, sportelli per l’alfabetizzazione digitale, aiuto nella ricerca della casa, educazione finanziaria, sostegno per la socialità dopo lavoro, prestiti sociali ad esempio con anticipo del TFR, ecc. Si tratta di sistemi di welfare aziendale più o meno complessi, più o meno strutturati, in base alla grandezza delle cooperative, con fondi dedicati, progettati, ragionati e monitorati, disegnati sui bisogni dei lavoratori, per dare respiro laddove spesso il lavoro è povero; questi interventi riguardano anche gli aspetti specificamente economici, con l’uso diffuso del ristorno per creare una sorta di quattordicesima.
“la pandemia ci ha insegnato ad essere più di prima in ascolto dei bisogni, a trasmettere in modo trasparente chi siamo, che organizzazione siamo. Ciascun servizio di welfare è calato sulle esigenze dei lavoratori, è costruito su di loro. Teniamo insieme tutto, la vita delle persone e i servizi erogati. Siamo vicini alla magia nel collimare tutto” (Cooperativa sociale di tipo A)
Il lavoro povero è sempre più trasversale sia alle cooperative che alle imprese tradizionali: i part time su livelli bassi di stipendio creano lavoratori poveri, soprattutto su mansioni a maggioranza femminile (non sempre con un nucleo familiare di coppia che possa tamponare, e in più vediamo l’aumento di donne sole con figli a carico). Inoltre, rileviamo il fenomeno del ricorso ai finanziamenti e la mal gestione dello scarso denaro guadagnato, che spesso porta a problemi di indebitamento. Stiamo cercando di supportare i lavoratori nell’educare all’uso del denaro ed offriamo servizi che possano essere benefit in più agli stipendi. (Cooperativa sociale di tipo A)
Infine, nelle cooperative sociali, soprattutto nelle cooperative di inserimento lavorativo, vi è uno storico e stretto legame con i servizi socioassistenziali e sociosanitari per affrontare insieme le fragilità dei lavoratori. Tale legame, tra l’altro, fa sì che le cooperative abbiano mantenuto negli anni la funzione di antenne e prevenzione del disagio che si esprime con ricadute sul lavoro, imparando a cogliere e maneggiare i segnali di sofferenza e confrontandoli con i servizi. Nei casi migliori, si crea un legame sinergico tra impresa sociale e servizi, dove ciascuno fa la sua parte legittimandosi reciprocamente.
Imprese for profit
Le imprese for profit intervistate – come si diceva un campione non necessariamente rappresentativo dell’universo - esprimono disponibilità e accoglienza verso i soggetti fragili in azienda; in generale vi è un tentativo di attuare, in caso di difficoltà, metodi inclusivi e non espulsivi, compresa la disponibilità ad accogliere persone svantaggiate.
“Il metodo di inclusione non è codificato, tendiamo a creare fiducia. Se una persona ha fiducia verso l’azienda, tendenzialmente si apre, e i problemi si affrontano insieme, si interviene insieme sui problemi” (titolare di impresa for profit)
Va d’altra parte evidenziato come tale volontà di attuare strategie inclusive appaia principalmente il desiderio di una dirigenza illuminata e non espressione del sentimento di tutti i colleghi nell’operatività quotidiana.
Ai capi area, ai coordinatori dei negozi (in un caso si tratta di una nota catena commerciale), viene trasmesso il valore dell’accoglienza e si insiste nella richiesta di creare nelle filiali un ambiente lavorativo a misura d’uomo; si tratta però di una indicazione da parte della dirigenza, che si accompagna peraltro a richieste pressanti circa la produttività che deve essere a tutti costi garantita.
Giocano poi alcuni aspetti dimensionali: si sono osservate, nelle unità produttive più piccole (es. filiali con 7 – 8 dipendenti) delle dinamiche di solidarietà reciproca tra dipendenti, con colleghi che comprendono le situazioni di difficoltà e si danno disponibili a strutturare i turni per andare incontro alle esigenze di specifici lavoratori. Ad esempio, con riferimento alla catena commerciale di cui sopra, quando una persona non riesce ad adempiere ai compiti affidati, viene spesso spostata in ruoli più tranquilli (es. scaffalista su corsie di prodotti semplici o leggeri) e tolta dalla cassa, che è un lavoro stressante e dal magazzino; ci sono stati casi di trasferimenti tra negozi per cercare un ambiente più consono a persone con fragilità. Nelle unità produttive più grandi, invece, di fatto è molto difficile, anche laddove i responsabili sono sensibili, gestire un’organizzazione produttiva e inclusiva al tempo stesso. E in generale va detto che l’ambiente di lavoro appare assai meno accogliente e paziente rispetto a quello delle cooperative, le fragilità sono tollerate con più fatica, nonostante gli Uffici di risorse umane siano attenti a comporre i negozi, mischiando persone fragili con gli altri dipendenti.
Rispetto alle fragilità legate all’invecchiamento dei lavoratori, le aziende tradizionali rispondono con consistenti pacchetti di formazione interna, ad esempio sulle procedure dello svolgimento del lavoro in sicurezza, su come sollevare carichi ed evitare che la ripetitività di mansioni possa affaticare il fisico.
Va detto che né nelle cooperative, né nelle imprese for profit sono invece diffusi strumenti tecnologici per alleggerire i lavori fisici usuranti. Come nelle cooperative, il metodo principale anche nelle imprese for profit è la creazione di squadre miste, tra giovani e adulti con problemi fisici legati all’età, per favorire l’aiuto di chi fa più fatica nel lavoro usurante.
Più in generale, nelle aziende osservate da questa indagine, non ci sono regolamenti o procedure pensate per la gestione dei lavoratori con fragilità e che non aderiscono pienamente alla mansione lavorativa. Si interviene caso per caso, o con spostamento di mansione o di sede di lavoro.
Rispetto alle cooperative sociali, emerge poi una differenza sostanziale rispetto all’assenza di relazioni con i servizi sociali e sanitari per la gestione dei casi critici; ciò non esclude invece che gli imprenditori più sensibili non si attivino, su specifici casi, cercando di creare delle relazioni specifiche con soggetti extra aziendali, ad esempio con associazioni che aiutano la persona a tentare di arginare situazioni quali abuso di alcol, fragilità in famiglia, depressione. Un legame strutturato con i servizi sociali e sanitari non è contemplato – fatti salvi alcuni casi specifici in cui ciò è avvenuto per il tramite del medico del lavoro -, né è nell’ordine di idee di questi soggetti la definizione di un metodo specifico per la presa in carico dei soggetti svantaggiati. In sostanza la propensione all’accoglienza è frutto dell’azione di dirigenze illuminate che cercano di far passare dall’alto valori inclusivi e che si estrinseca però in un ambiente di lavoro che generalmente non ha comportamenti inclusivi verso i colleghi fragili, ma al contrario tende a isolarli.
Le imprese di fronte all’aging
Si è visto come il fenomeno dell’invecchiamento dei lavoratori sia sicuramente da includere come una delle maggiori fragilità da gestire in azienda. Le risposte e le soluzioni ad oggi messe in campo, in modo simile, da parte delle imprese sociali e delle imprese for profit, sono incentrate – con le differenze prima evidenziate - da una parte sul lavoro di squadra che possa sostenere i lavoratori con riduzione di produttività legata all’età, e dall’altra invece sulla formazione continua per tutta la vita, che possa permettere una crescita di competenze tecniche, e dunque evitare casi di demansionamento verso il basso, per chi ha problemi fisici legati all’invecchiamento.
Nell’attuale contesto, caratterizzato da un invecchiamento sempre più generalizzato, tali strategie diventano sempre più impegnative. Tutte le imprese intervistate, sociali e for profit, infatti, lamentano il problema di reperimento di profili giovani a vari livelli, o raccontano casi di giovani che si avvicinano all’azienda, sono assunti a tempo indeterminato, ci restano per un tempo, ma poi si convincono che l’impresa non rappresenti un luogo di approdo su cui investire, abbandonando dopo poco tempo il lavoro. Il turnover alto dei giovani, dunque, aggrava il problema dell’aging.
Una lettura compiuta di questo fenomeno richiederebbe un approfondimento ulteriore e ovviamente le indicazioni ottenute dai responsabili delle risorse umane delle imprese intervistate rappresentano una lettura parziale di questa situazione, sicuramente molto diversa da quella che darebbero i giovani che lasciano il lavoro. Quello che è certo è che per i lavori più gravosi, che comportano un alto impegno di energie fisiche e mentali (il lavoro di cura nell’assistenza in strutture per non autosufficienti, spesso a gestione cooperativa, ne è l’esempio più lampante), oggi le imprese incontrano estreme difficoltà a trovare giovani lavoratori disposti, come i loro colleghi più anziani, a sopportare le fatiche che il lavoro di cura comporta (turni e lavoro nel weekend, difficoltà a gestire lo stress della cura di persone non autosufficienti, fatica, ecc.). A fronte di questa situazione, quali sono le risposte organizzative, simili, almeno per il gruppo di imprese intervistato, tra imprese for profit e imprese sociali?
Sinteticamente, vengono indicati:
- Flessibilità di turni /orari su misura: questa soluzione, richiesta, ad esempio, da donne che hanno carichi di lavoro di cura a casa, è abbastanza onerosa da un punto di vista organizzativo, dal momento che si tratta di creare orari specifici in un flusso organizzativo che richiede incastri con gli altri membri della squadra e richiede pertanto una disponibilità diffusa da parte degli altri lavoratori;
- Trasferimenti a servizi /sedi di lavoro più “leggeri”, pensati proprio per ricollocare lavoratori affaticati dal lavoro fisico (o anche casi di burnout psicologico): pensiamo ad esempio al settore delle pulizie e alle sue mansioni in differenti luoghi. Pulire scale e appartamenti è più faticoso del pulire scrivanie di uffici. O il carico/scarico in “batteria” in tutta la giornata può essere alternato a giornate dove tale lavoro viene fatto occasionalmente; o determinati cantieri o clienti più esigenti possono essere affidati a lavoratori più in grado di sopportare una maggiore fatica, ben sapendo che questa strategia rischia, se abusata, di condurre anche loro a non sopportare più i carichi lavorativi.
- Formazione life long. È sempre più grande la consapevolezza che la formazione continua sia l’antidoto alla perdita di professionalità e al demansionamento legato a fatiche che possano sopraggiungere nel corso della vita lavorativa, sia fisiche che mentali. La formazione continua permette di aumentare competenze, anche nel corretto uso degli strumenti di lavoro e dei carichi, evitando così malattie professionali e disabilità, e per acquisire certificazioni e patenti finalizzati ad aumentare la professionalità dei lavoratori.
Conclusioni
Le interviste hanno messo in luce una questione, quella della gestione della fragilità lavorativa, che ha contorni più ampi e sfumati rispetto alle categorie con cui generalmente gli imprenditori sociali sono abituati ad inquadrarla. Forse più che di lavoratori svantaggiati e lavoratori normodotati, si dovrebbe interpretare un continuum tra situazioni di fatica più o meno marcata e più o meno permanente che, anche per fasi specifiche della vita, può accompagnare i lavoratori.
Il punto successivo è chiedersi cosa fanno le imprese quando il lavoratore si dimostra in tutto o in parte, temporaneamente o meno, inadeguato. E su questo si è realizzato un confronto tra strategie organizzative utilizzate dalle imprese sociali e dalle imprese for profit.
Probabilmente le imprese for profit considerate si distanziano in modo significativo da altre unità meno sensibili e più propense ad attivare dinamiche espulsive, ma questo si è dimostrato funzionale rispetto all’esito principale di questa indagine, che può essere così riassunto: realizzare un contesto lavorativo inclusivo non è solo questione di buona volontà e di sensibilità, ma richiede di operare in modo consapevole e organizzato, strutturando adeguatamente una pluralità di aspetti diversi, messi in luce dalla ricerca, dalle relazioni con i servizi alla cultura dei gruppi di lavoro e non solo del gruppo dirigente. In questo, le imprese sociali mantengono una vocazione specifica, in parte “istintiva”, in parte frutto dell’evoluzione organizzativa, che può rappresentare un elemento prezioso e poco analizzato e forse in qualche misura ancora da valorizzare appieno, sia relativamente alle forme di svantaggio riconosciute dalla 381/1991, sia relativamente alle tante fragilità espresse dai lavoratori e dalle lavoratrici.
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Ricerca e articolo di Piera Lepore pubblicato su:
Rivista “Impresa Sociale”